Io non volevo farlo questo lavoro.
Volevo stare in un laboratorio, con il camice bucato di acido solforico e macchiato di iodio, con l'odore di acetone e il bancone pieno di strana vetreria.
Avevo giurato che non sarei mai stata dentro una farmacia anche se l'odore di una di queste, in montagna, e il sorriso delle due farmaciste ogni tanto mi accendevano una lampadina in testa, puntualmente presa metaforicamente a martellate.
Io non volevo e soprattutto non mi sarei mai azzardata a lavorare in quella sotto casa, dove il titolare ci conosceva bene perché il figlio era stato alunno di mia mamma.
Ma la vita fa sempre questi scherzi, ti mette sui binari un ostacolo cosicché il tuo treno venga deviato lontano da quel che ti eri immaginata e ti mette davanti una nuova destinazione.
Così mi sono trovata a desiderare di cambiare lavoro, ho girato un gran numero di farmacie della mia città e alla fine, per non fare torto a nessuno, sono entrata in un pomeriggio affollato e caotico proprio in quella che era l'ultima delle ultime scelte.
Ovviamente ho iniziato li, solo perché ero la figlia della prof e poi il destino ha voluto che dopo pochi mesi ci fosse veramente bisogno di me.
Dopo quasi nove anni sono ancora qui e ho capito tante cose.
Ho capito che le persone non vanno giudicate mai dall'apparenza perché le più noiose, arroganti, trascurate, arrabbiate, sono quelle che hanno delle storie da far venire i brividi.
Ho capito che una parola in più apre il dialogo con chi non ha nessuno con cui parlare.
Ho imparato che stare in mezzo alla gente è estenuante quanto prezioso per renderti umile e prudente.
In tutto questo tempo ho ricevuto caramelle, uova, torte, barattoli di miele e di marmellata, fettuccine fatte in casa, caffè, panettoni e bottiglie di olio, innumerevoli "grazie" e sorrisi, parole che mi hanno lasciata a bocca aperta e mani strette alle mie che parlavano senza bisogno di dire nulla.
Non volevo fare questo lavoro ma se mi avessero detto quanto avrei ricevuto in cambio non ci avrei pensato così tanto.