martedì 4 ottobre 2011

Vivere per lavorare o lavorare per vivere?

Lavorare per vivere.
Decisamente.
Cioè, una persona lavora per assicurarsi una vita decente, per togliersi anche qualche sfizio...ma per quanto piaccia, il lavoro dev'essere un mezzo e non il fine. Non la ragione di vita, il primo pensiero quando ci si alza, ciò che riempie le giornate festive, Natale e domeniche comprese.
Purtroppo da quattro anni a questa parte lavoro in un posto (ma forse ce ne sono tanti di posti così...) in cui, sopratutto chi sta in alto (ma non solo, ahimè) pensa esattamente il contrario.
La vita per la ricerca, per il titolo, per apparire e farsi un nome...che poi diciamocelo: ma la ricerca, in Italia, quanto vale? Quando mai sentiamo di strabilianti scoperte nate dalle brillanti università italiane?
Comunque, dicevo, da quando ho il privilegio di contribuire anche io a questo grande progresso della scienza ho avvertito sempre più frequentemente intorno a me una incredulità prima, uno sdegno poi, che è sfociato infine nella umiliazione (mobbing?) per il fatto di aver messo al primo posto la mia vita privata.
Ora, chiariamo: ho messo al primo posto ma ciò non vuol dire che io abbia tolto qualcosa al mio lavoro, quando sono stata a casa per maternità ho fermato la borsa di studio (cioè non ho preso lo stipendio, non ho rubato niente all'università italiana...men che meno al mio illuminato, anzi "chiarissimo", professore!), ho fatto pochissime assenze a causa delle bimbe, ho sempre cercato di propormi e farmi avanti, proprio per far capire che anche se ero diventata mamma questo non mi impediva di pensare come prima alla mia attività di ricerca.
Nonostante il mio comportamento non sia cambiato, a mano a mano che passava il tempo mi sono accorta che il trattamento che mi veniva riservato era sempre peggiore e che più io cercavo di propormi più questo veniva preso come un atteggiamento arrogante (dovevo solo eseguire gli ordini, senza usare la testa!) finchè il dialogo si è affievolito sempre più, le cose di cui occuparmi sono diminuite, arrivando, dopo qualche scenata per futili motivi alla situazione in cui alcuni professori, incontrandomi, non mi salutano nemmeno!
D'altra parte cosa aspettarsi da uno che, all'annuncio che la bimba sarebbe nata a marzo mi disse: ”Ah, bene, allora può tornare tranquillamente a metà Aprile!”; oppure da una che, nel pieno della calura estiva, si compiace con una collega senza figli perché “noi si che siamo fortunate che possiamo dedicarci alla ricerca,  pensi a quest’ora tutte quelle madri in spiaggia con i bambini!”.
Che sfiga, eh!
Purtroppo da quanto sento in giro la situazione è molto comune…è che noi donne abbiamo questo brutto vizio di fare figli!
Ma al di là del discorso maternità credo che per quanto un lavoro sia appassionante non debba essere altrettanto totalizzante, per un uomo come per una donna!
La vita è altro!
Fa solo molta tristezza pensare di essere giudicati, ostacolati e pressati psicologicamente per una scelta che dovrebbe restare una questione personale e non un indice della propria dedizione lavorativa.

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